mercoledì 23 luglio 2014

Gramsci ha anticipato le Sentinelle in Piedi

Leggiamoci questo brano dei Quaderni del Carcere di Antonio Gramsci [Quaderno 8 (XXVIII), fogli 7-7bis]:
§ <14> Argomenti di cultura. I) Sul predicatore cattolico. La Controriforma elaborò un tipo di predicatore che si trova descritto nel De Predicatore Verbi Dei, Parigi 1585. Alcuni canoni: 1°) sia la predicazione intonata all’uditorio: diversa quindi per un pubblico di campagnoli ed uno di cittadini, per nobili e plebei, ecc.; 2°) il predicatore non deve indulgere all’eloquenza esteriore, non alla soverchia raffinatezza della forma; 3°) non si addentri in questioni troppo sottili e non faccia sfoggio di dottrina; 4°) non riferisca gli argomenti degli eretici dinanzi alla moltitudine inesperta, ecc. Il tipo di predicatore elaborato dalla Controriforma lo si può trovare modernamente nel giornalista cattolico, poiché in realtà i giornalisti sono una varietà culturale del predicatore e dell’oratore. Il punto 4° è specialemnte interessante e serve a capire perché il più delle volte le polemiche coi giornali cattolici siano sterili di risultati: essi non solo non riportano gli <<argomenti degli eretici>>, ma anche nel combatterli indirettamente li storcono e li sfigurano, perché non vogliono che i lettori inesperti riescano a ricostruirli dalla polemica stessa. Spesso addirittura l’<<eresia>> è lasciata senza obbiezione, perché si ritiene minor male lasciarla circolare in un dato ambiente piuttosto che, combattendola, farla conoscere agli ambienti non ancora infetti.

II) Apostati e loro sistemi sleali di polemica. I cattolici si lamentano spesso, e con ragione, che gli apostati dal cattolicesimo si servono degli argomenti degli eretici tacendone le confutazioni, ma presentandoli, agli inesperti, come novità originali non confutate. Nei seminari questi argomenti sono appunto esposti, analizzati, confutati nei corsi di apologetica: il prete spretato, con insigne slealtà intellettuale, ripresenta al pubblico quegli argomenti come suoi originali, come inconfutati e inconfutabili, ecc.
Gramsci scriveva prima del Web – al giorno d’oggi un polemista che non faccia un link alle proposizioni che si propone di confutare sarebbe considerato sospetto.

Eppure un intellettuale di riferimento delle Sentinelle in Piedi (Gilberto Gobbi, per non far nomi) si comporta così: cita autori ormai dimenticati (come Moyney) e passa sotto silenzio autori attualissimi (come la Butler), rendendo impossibile ricostruire le idee che combatte; parla di “ideologia del gender” oppure di “ideologia gay” senza indicare con precisione le fonti da cui trae le proposizioni con cui polemizza – e quando uno invece nel confutare cita ed evidenzia le sue proposizioni discutibili, con link che consentano al lettore di leggerle nel loro contesto e valutare se la polemica è stata condotta in modo onesto, proclama che le sue parole sono state distorte, anzi, accartocciate.

Forse è meglio ricuperare il senso della misura, per non fare la figura del paiolo che dice alla pentola che ha il fondo nero (citazione dal Divano Occidentale-Orientale di JW Goethe, che a sua volta citava il poeta persiano Hafiz, icona gay).

Oppure, non fare la figura dei due protagonisti di una barzelletta ebraica citata da Gramsci, sempre nei Quaderni (mi sono permesso di ritoccarla): 
Isacco chiede a Beniamino: "Dove vai?"; Beniamino risponde: "A Cracovia". "Bugiardo!", ribatte Isacco: "Tu mi dici che vai a Cracovia perché io creda che tu vada a L'viv; ma io so che tu vai davvero a Cracovia. Ed allora, perché non dici sinceramente che vai a Cracovia?"
Direi che all'intellettuale in questione non interessa polemizzare con i suoi pari (altrimenti agirebbe in modo diverso), ma spaventare le persone semplici, e chiudere preventivamente loro le orecchie - come il predicatore controriformista citato da Gramsci.

Per quanto riguarda gli apostati citati, è un vero peccato che Gramsci generalizzi e non prenda in considerazione il caso di chi ha apostatato o lasciato il sacerdozio proprio perché disgustato da questo modo di argomentare. Gramsci sembra pensare che questo modo sbagliato (anzi, disonesto) di polemizzare sia impossibile da abbandonare una volta acquisito.

Raffaele Ladu
Dottore in Psicologia Generale e Sperimentale


mercoledì 9 aprile 2014

Per un femminismo non essenzialista

Sempre dal libro

Traduco questo brano – parla del femminismo, ma la metodologia è applicabile a tutti coloro che lottano per il cambiamento.

(inizio)
Qualcosa di simile si può dire sul ‘soggetto’ del femminismo. La critica dell’essenzialismo femminista è stata portata avanti in particolare dalla rivista inglese m/f: diversi studi importanti hanno respinto la nozione di ‘oppressione delle donne’ come categoria precostituita – sia rinvenuta la sua causa nella famiglia, nel modo di produzione od altrove – ed hanno tentato di studiare ‘il particolare momento storico, le istituzioni e le pratiche attraverso cui si produce la categoria della donna’. [Nota 29] Una volta che si è negato che esista un unico meccanismo dell’oppressione delle donne, si apre un immenso campo d’azione per la politica femminista. Uno può allora percepire l’importanza delle lotte puntuali contro ogni forma oppressiva di costruire le differenze sessuali, sia al livello della legge, della famiglia, della politica sociale, o delle forme culturali multiple attraverso cui la categoria del ‘femminino’ è costantemente prodotta. Noi siamo, perciò nel campo di una dispersione delle posizioni soggettive. La difficoltà di questo approccio, però, nasce dall’enfasi unilaterale data al momento [p.103 | p. 104] della dispersione – tanto unilaterale che noi restiamo solo con un insieme eterogeneo di differenze sessuali costruite attraverso pratiche che non hanno alcuna relazione reciproca. Ora, mentre è assolutamente corretto mettere in discussione l’idea di una divisione sessuale originaria rappresentata a posteriori nelle pratiche sociali, è anche necessario riconoscere che la sovradeterminazione tra le diverse differenze sessuali produce un effetto sistematico di divisione sessuale. [Nota 30] Ogni costruzione di differenze sessuali, qualunque sia la loro molteplicità ed eterogeneità, invariabilmente costruisce il femminino come un polo subordinato al mascolino. È per questo motivo che si può parlare di un sistema sesso/genere. [Nota 31] L’insieme delle pratiche sociali, delle istituzioni e dei discorsi che producono la donna come categoria, non sono completamente isolati, ma si rinforzano mutuamente e si influenzano a vicenda. Questo non significa che c’è una sola causa della subordinazione femminile. La nostra opinione è che una volta che il sesso femminile è venuto a connotare un genere femminile con caratteristiche specifiche, questa ‘significazione immaginaria’ produce effetti concreti nelle diverse pratiche sociali. Pertanto, c’è una stretta correlazione tra la ‘subordinazione’, come categoria generale che dà forma all’insieme dei significati che costituiscono la ‘femminilità’, e l’autonomia e lo sviluppo diseguale delle diverse pratiche che costruiscono le concrete forme di subordinazione. Queste ultime non sono l’espressione di un’immutabile essenza femminina; ma nella loro costruzione, però, il simbolismo che è collegato alla condizione femminile in una data società gioca un ruolo primordiale. Le diverse forme di subordinazione, a loro volta, reagiscono contribuendo al mantenere ed al riprodurre questo simbolismo. [Nota 32] È perciò possibile criticare l’idea di un antagonismo originario tra uomini e donne, costitutivo della divisione sessuale, senza negare che nelle varie forme di costruzione della ‘femminilità’ cì un elemento comune che ha forti effetti sovradeterminanti nei termini della divisione sessuale.
(note)
[Nota 29] m/f, 1978, numero 1, nota editoriale. 
[Nota 30] Cfr. C. Mouffe, ‘The Sex/Gender System and the Discorsive Construction of Women’s Subordination = Il sistema sesso/genere e la costruzione discorsiva della subordinazione delle donne’, in S. Haeninen ed L. Paldan, curatori, Rethinking Ideology: A Marxist Debate = Ripensare l’ideologia: un dibattito marxista, Berlino, 1983. Un’introduzione storica alla politica femminista da questo punto di vista la si può trovare in Sally Alexander, ‘Women, Class and Sexual Difference = Donne, classe e differenza sessuale’, History Workshop 17, Primavera 1983. Sulla più generale questione della politica sessuale, vedasi Jeffrey Weeks, Sex, Politics and Society = Sesso, Politica e Società, Londra 1981. 
[Nota 31] Questo concetto è stato sviluppato da Gayle Rubin, ‘The Traffic in Women: Notes on the “Political Economy” of Sex = Il traffico delle donne: note sull’”economia politica” del sesso’, in R. R. Reiter, curatore, Toward an Anthropology of Women = Verso un’antropologia delle donne, New York/Londra 1975, pp. 157-210. 
[Nota 32] Questo aspetto non è completamente ignorato dai curatori di m/f. Perciò, P. Adams e J. Minson affermano: “Ci sono certe forme di responsabilità ‘illimitata’ che coprono una molteplicità di relazioni sociali – tali che le persone sono ritenute ‘responsabili’ in generale, in una molteplicità di valutazioni (essere ritenuto ‘irresponsabile’ ne è il polo negativo). Però, per quanto diffusa appaia questa responsabilità illimitata, essa è comunque soggetta alla soddisfazione di condizioni sociali definite e la responsabilità ‘illimitata’ deve essere interpretata come un fascio eterogeneo di norme”. ‘The “Subject” of Feminism = Il “soggetto” del femminismo’, m/f, 1978, no. 2, p. 53
(fine)

L’interpretazione che do di questo brano è che si sbaglia a ritenere che l’oppressione delle donne abbia un’unica causa, anche perché questo postulerebbe l’esistenza di un unico tipo di donna. Esistono molti modi di costruire (cioè, creare con la mente) una differenza tra uomini e donne che giustifichi la subordinazione delle donne agli uomini, ed ognuna di queste costruzioni (a livello sociale, legislativo, familiare, culturale, eccetera) va combattuta.

Queste costruzioni vanno demolite (tenete a mente il bisticcio) una alla volta oppure tutte insieme? E sono nate grazie ad un progetto unitario (come nella pianificazione urbanistica moderna) oppure sono nate una accanto all’altra, magari imitando l’una l’altra (come è accaduto in molte città premoderne, per non dire medioevali?).

Gli autori negano l’esistenza di un progetto unitario, che si baserebbe infine sull’intrinseca diversità tra gli uomini e le donne (per gli autori, non esiste: il dato biologico non si traduce automaticamente in uno sociale); sostengono invece l’ipotesi che siano nate una accanto all’altra. Però chiunque visiti una città medievale si rende conto che una costruzione che raggiunge il suo scopo ha i suoi imitatori, che costituiscono uno stile ed infine un paesaggio urbano coerente – quello che, fuor di metafora, viene qui chiamato “sistema sesso/genere”.

In un paesaggio urbano coerente gli edifici imitandosi a vicenda creano una famiglia di rimandi - ogni edificio evoca in chi lo contempla tutti quelli che gli somigliano, e chi li guarda se li imprime tutti nella memoria; un fenomeno simile (in cui un simbolo rimanda a tanti altri) viene chiamato in psicoanalisi "sovradeterminazione".

Come nelle città premoderne gli edifici si sostengono a vicenda, così queste costruzioni della differenza sessuale si sostengono a vicenda (strutturalmente e simbolicamente) – non si consiglia l’atomica per spianare l’agglomerato una volta per tutte, e quindi non resta che abbatterle ad una ad una, scegliendo attentamente da quali cominciare, ma senza dimenticare il quadro complessivo e l’obbiettivo finale.

Due cose aggiungo: la prima è che quello che viene detto della lotta delle donne per me vale anche per la lotta delle minoranze sessuali; la seconda è che, se il “sistema sesso/genere” nasce per “concrezioni” successive, allora di esso si può dire quello che disse Gramsci del folklore, e che ho esplicitato qui.

La pianificazione urbanistica ha distrutto capolavori, ma anche quartieri malsani. Le discriminzioni sociali appartengono alla seconda categoria.

Raffaele Ladu
9 Aprile 2014

sabato 29 marzo 2014

Pratica democratica dell'egemonia

Sempre dal libro

Traduco questo brano (i corsivi sono degli autori) che parla di come si può esercitare l’egemonia in modo democratico (un altro brano spiega come la si può esercitare invece in modo autoritario, ma non mi pare così necessario tradurlo).
Pratica democratica. Come abbiamo indicato, il terreno della ricomposizione egemonica porta un potenziale per l’espansione e l’approfondimento democratico della pratica politica socialista. Senza l’egemonia, la pratica socialista può concentrarsi solo sulle istanze e gli interessi della classe operaia. Ma nella misura in cui lo spostamento delle tappe [della marcia verso il socialismo, NdT] impone alla classe operaia di agire su un terreno di massa, deve mollare il suo ghetto di classe e trasformarsi nell’articolatrice di una molteplicità di antagonismi ed istanze che vanno oltre se stessa. Da tutto quello che abbiamo detto, è evidente che l’approfondimento di una pratica democratica di massa – che snobba le manipolazioni avanguardistiche ed una caratterizzazione esterna [ovvero, che non cambia la natura delle parti coinvolte, NdT] della relazione tra egemonia di classe e compiti democratici – si può ottenere solo se si riconosce che questi compiti non hanno un carattere necessariamente di classe e se si rifiuta completamente la dottrina delle tappe. È necessario rompere con l’opinione per cui i compiti democratici sono legati ad una tappa borghese – solo allora l’ostacolo che impedisce un’articolazione permanente tra socialismo e democrazia sarà eliminato.
Qui inserisco degli “a capo” perché mi pare che questo sia il brano più significativo – i grassetti sono tutti miei:
Quattro conseguenze fondamentali ne derivano: 
Primo, la stessa identità delle classi viene trasformata dai compiti egemonici che si assumono: la rigida linea di demarcazione tra l’interno [l’essenza, NdT] e l’esterno [i rapporti politici, NdT] cade. 
Secondo, nella misura in cui le istanze democratiche delle masse perdono il loro necessario carattere di classe, il campo dell’egemonia cessa di implicare una massimizzazione degli effetti basata su un gioco a somma zero tra le classi; ed è anche chiaramente insufficiente la nozione di ‘alleanza di classe’, dacché l’egemonia presume la costruzione dell’identità stessa degli agenti sociali, e non solo una coincidenza razionalistica degli ‘interessi’ tra agenti precostituiti. 
Terzo, il campo della politica non può più essere considerato una ‘rappresentazione degli interessi’, dato che la cosiddetta ‘rappresentazione’ modifica la natura di ciò che è rappresentato. (Infatti, la stessa nozione di rappresentazione come trasparenza diventa insostenibile. Quello che qui si mette in discussione è nientedimeno che il modello base/sovrastruttura). 
Infine, nella misura in cui l’identità degli agenti sociali cessa di costituirsi esclusivamente attraverso il loro inserimento nei rapporti di produzione, e diviene un’articolazione precaria tra diverse posizioni soggettive, quella che viene implicitamente messa in discussione è l’identificazione tra agenti sociali e classi.
Rammento che il mio obbiettivo non è il socialismo; ciononostante le parole che ho citato sono preziose per chiunque voglia praticare la democrazia politica.

E sono anche un appello a sbarazzarsi dell’essenzialismo: esso non impronta soltanto la filosofia degli arcobalenofobi, che vogliono un mondo in cui ogni persona abbia alla nascita un’identità ed un compito immutabili, ma anche quella di una parte del movimento femminista ed LGBT, quella che ogni anno si copre di obbrobrio con il Michigan Womyn's Music Festival, quella che usa l’argomento del “non possiamo non essere così” – una strategia di corto respiro che finisce con il ghettizzare chi vi ricorre.

Raffaele Ladu
29 Marzo 2014

lunedì 24 marzo 2014

I limiti della catena delle equivalenze

Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, nel brano qui tradotto, parlano di "catena delle equivalenze", affrontando dal punto di vista politico uno spinoso problema di psicologia sociale: fino a che punto riconosci in chi appartiene ad un altro gruppo un essere umano?

Quello che per gli psicologi sociali è la "disumanizzazione", per Laclau e Mouffe è il non riconoscere l'altro come un anello della medesima "catena delle equivalenze", escluderlo quindi dal discorso egemonico che si vuole pronunciare - in quanto tale discorso si rivolge solo a chi fa parte della medesima catena.

È vero che la "disumanizzazione" è solo la versione più estrema di questa esclusione, ma il "troncare la catena" è comunque una cosa politicamente assai grave.

Un tempo venivano escluse le vittime omosessuali del nazismo dalle celebrazioni a cui partecipavano i superstiti perseguitati per motivi etnici, religiosi, politici, razziali - soltanto di recente ci si è resi conto che l'LGBT-fobia del nazifascismo era un salto di qualità rispetto a quella dei regimi che aveva soppiantato, e si sono riconosciute le minoranze sessuali come anelli della medesima "catena delle equivalenze".

Le persone bisessuali lamentano il medesimo "troncamento della catena": molte persone ed organizzazioni omosessuali (specialmente quelle lesbiche) rifiutano di riconoscere le persone bisessuali come oppresse in modo simile al loro, e commettono l'errore di voler essere egemoni proprio escludendo le persone bisessuali.

Perché questo è sbagliato lo spiego in un altro post.

Raffaele Ladu
24 Marzo 2014

Un esempio di narrazione egemonica: la Giornata della Memoria

Prima di cominciare, un'utile avvertenza: per me "egemonico" non è una parolaccia. Come chi vuol diventare ricco ammira i ricchi, così chi vuol diventare egemone ammira gli egemoni. L'importante è che dall'ammirazione non si scada nella "mimicry = imitazione servile".

Ho qui tradotto un brano del libro Hegemony and Socialist Strategy, di cui la parte più importante mi pare questa :
Di fronte a delle forze oppressive, ad esempio, un insieme di particolarità stabilisce delle relazioni di equivalenza tra di loro. Diventa però necessario rappresentare la totalità della catena, aldilà dei semplici diversi particolarismi dei diversi anelli di equivalenza. Quali sono i mezzi di rappresentazione? Come sosteniamo, solo una particolarità il cui corpo è scisso, in quanto, senza cessare di essere la sua propria particolarità, trasforma il proprio corpo nella rappresentazione di un'universalità che lo trascende (quella della catena delle equivalenze). Questo rapporto, con cui una certa particolarità si assume la rappresentazione di un'universalità assolutamente incommensurabile con essa, è quello che noi chiamiamo rapporto egemonico. Ne risulta che la sua universalità è un'universalità contaminata: (1) vive in quest'insolubile tensione tra universalità e particolarità; (2) la sua funzione di universalità egemonica non è acquisita definitivamente, ma, al contrario, è sempre reversibile.
Dal punto di vista di questo blog, le forze oppressive da contrastare, e che obbligano a stabilire relazioni di equivalenza tra particolarità oppresse, sono quelle della discriminazione per qualità essenziali (cioè immutabili, o mutabili solo a prezzo della rinuncia a diritti fondamentali) della persona, discriminazione che va dalla difficoltà nel trovare amici al genocidio (la Shoah ne è l'esempio più noto).

Nella catena delle equivalenze che questo tipo di oppressione crea, la particolarità che ha stabilito un rapporto egemonico con le altre è l'ebraismo, inteso non semplicemente come religione, ma anche come etnia e cultura.

La legge che ha istituito la Giornata della Memoria, pur cercando di evitare che il 27 Gennaio di ogni anno si parlasse solo degli ebrei, non ha potuto fare altro che confermare quest'egemonia. Infatti, altre minoranze (di genere, sessuali, etniche, razziali) oppresse dal nazifascismo raccontano ora la loro storia come varianti di un paradigma la cui forma più pura si è espressa nella persecuzione e nello sterminio degli ebrei.

La cosa che le minoranze sessuali possono fare, per non essere relegate come nota a piè di pagina in questa narrazione, è quella di osservare che componente non trascurabile dell'antisemitismo moderno è stata il vedere negli ebrei un pericolo mortale per i ruoli sessuali e di genere come si stavano configurando nell'Europa ottocentesca.

Dovrò approfondire il problema (rileggendo, ad esempio, il libro L'immagine dell'uomo. La nascita della mascolinità moderna / Mosse, George L.), ma mi pare sufficiente per ora notare quanto abbiano avuto in comune l'LGBT-fobia e l'antisemitismo nell'Europa che si avviava verso Auschwitz.

Raffaele Ladu
24 Marzo 2014

Dal libro "Hegemony and Socialist Strategy / Laclau, Ernesto ; Mouffe, Chantal"

Ritengo opportuno tradurre codesto brano del libro:
[inizio - p. xii]

A proposito della soggettività egemonica, il nostro argomento combacia con tutto il dibattito sul rapporto tra particolarismo ed universalismo, che è divenuto abbastanza centrale negli ultimi anni. Un rapporto egemonico ha senza dubbio una dimensione universalistica, ma è un tipo assai particolare di universalismo di cui è importante sottolineare le caratteristiche salienti. Non è il risultato di una decisione contrattuale, come nel caso del Leviatano di Hobbes, in quanto il legame egemonico trasforma [p. xii | p. xiii] l'identità dei soggetti egemoni. Non è necessariamente legato ad uno spazio pubblico, come nella nozione di Hegel di "classe universale", perché le riarticolazioni egemoniche iniziano a livello della società civile. Non è, infine, come la nozione marxiana di proletariato come classe universale, in quanto non risulta da una riconciliazione umana finale che porta all'appassire dello Stato ed alla fine della politica; il legame egemonico è, invece, costitutivamente politico.

Cos'è, in questo caso, l'universalità specifica inerente nell'egemonia? Risulta, argomentiamo nel testo, dalla dialettica specifica da ciò che chiamiamo logica della differenza e logica dell'equivalenza. Gli attori sociali occupano posizioni diverse nel discorso che costituisce il contesto sociale. In questo senso essi sono tutti, in senso stretto, delle particolarità. D'altronde, ci sono degli antagonismi sociali che creano delle frontiere interne dentro la società. Di fronte a delle forze oppressive, ad esempio, un insieme di particolarità stabilisce delle relazioni di equivalenza tra di loro. Diventa però necessario rappresentare la totalità della catena, aldilà dei semplici diversi particolarismi dei diversi anelli di equivalenza. Quali sono i mezzi di rappresentazione? Come sosteniamo, solo una particolarità il cui corpo è scisso, in quanto, senza cessare di essere la sua propria particolarità, trasforma il proprio corpo nella rappresentazione di un'universalità che lo trascende (quella della catena delle equivalenze). Questo rapporto, con cui una certa particolarità si assume la rappresentazione di un'universalità assolutamente incommensurabile con essa, è quello che noi chiamiamo rapporto egemonico. Ne risulta che la sua universalità è un'universalità contaminata: (1) vive in quest'insolubile tensione tra universalità e particolarità; (2) la sua funzione di universalità egemonica non è acquisita definitivamente, ma, al contrario, è sempre reversibile. Sebbene noi stiamo senza dubbio radicalizzando in vari modi l'intuizione gramsciana, noi pensiamo che qualcosa del genere sia implicito nella distinzione di Gramsci tra classe corporativa e classe egemonica. La nostra nozione di universalità contaminata si diversifica da una concezione come quella di Habermas, per il quale l'universalità ha un contenuto suo proprio, indipendente da ogni articolazione egemonica. Ma evita anche l'altro estremo - rappresentato, forse, nella forma più pura nel particolarismo di Lyotard, la cui concezione della società come composta da una pluralità di giochi linguistici incommensurabili, le cui interazioni possono concepirsi solo come un torto, rende ogni riarticolazione politica impossibile.

[p. xiii - fine]

I corsivi sono degli autori - commenterò questo brano in altri post.

Raffaele Ladu
24 Marzo 2014 

sabato 22 marzo 2014

Tra Gramsci e Rawls: egemonia nella ragion pubblica

Negli altri post di questo blog (più esplicitamente in questo) affermo che per avere l'egemonia occorre essere sicuri delle proprie idee e della possibilità di convincere altri della loro universale validità.

Questo elemento soggettivo non viene esplicitato in Gramsci, e l'ho tratto dal concetto di ragion pubblica di John Rawls, che, a dire il vero, non esige tanto.

Questa pagina dice che Rawls ritiene che i cittadini:
devono essere pronti a spiegarsi reciprocamente le basi delle proprie azioni in un modo tale che ciascuno si possa ragionevolmente aspettare che le sue spiegazioni siano accettate dagli altri, perché compatibili con la loro libertà e uguaglianza (John Rawls, Liberalismo politico, Edizioni di Comunità, Milano 1994, p. 187) 
Si può intendere Rawls come colui che detta le regole della lotta per l'egemonia in un regime democratico costituzionale - un gruppo sociale può ambire all'egemonia non solo se soddisfa le esigenze di un particolare momento storico (lo ammetto, è il mio tributo reso controvoglia alla dottrina marxista), ma anche e soprattutto se sa articolare la propria ideologia in modo compatibile con le esigenze della ragion pubblica.

Non è necessario per questo fare del proselitismo ideologico: è sufficiente dimostrare di essere capaci di farsi carico anche delle esigenze e dei diritti degli altri.

Per Gramsci l'alternativa all'egemonia, che consente di far accettare pacificamente il proprio ruolo dirigente, è il dominio - esercitato con la forza; di Rawls così riassume il pensiero Marco Grieco in questa pagina:
La ragione pubblica, quindi, si definisce, sempre più precisamente, come il modo in cui cittadini, che agiscono e pensano secondo dottrine ragionevoli, si "autogovernano". La coscienza civica e politica, infatti, permette al singolo di sentirsi parte integrante di un sistema di potere a cui è soggetto ma che, al contempo, contribuisce a determinare. Se manca, o risulta distorta, la percezione di entrambi i ruoli (dell'esercitare e del subire) nei confronti del potere, ovvero, se il cittadino  non partecipa alla definizione dei limiti della propria libertà, è inevitabile il sentimento di esclusione che ne deriva (cui possono seguire pericolose forme di rivolta) [enfasi dell'autore].
Il brano mostra quanto siano simili i problemi che Gramsci e Rawls affrontano, anche se diversi sono gli obbiettivi: la dittatura (democratica) del proletariato in Gramsci, una società liberale costituzionale in Rawls.

I bisessuali devono essere i gramsciani di un sistema politico rawlsiano.

Raffaele Ladu
22 Marzo 2014

Due religioni non egemoniche

In quest'articolo affermo che gli eteronormativi hanno ammesso di non essere egemonici dal momento in cui hanno fatto di tutto per bloccare ogni sorta di educazione sessuale nelle scuole.

La mia opinione (almeno) è infatti che l'egemonia abbia bisogno di un elemento soggettivo - la fiducia nelle proprie idee e nella capacità di renderle di valore universale.

Per rifarsi alla situazione che ha dato vita al concetto di egemonia, la lotta di classe, una classe sociale per essere egemone non deve convincere solo le altre di meritare di dirigerle, ma deve anche essere convinta essa stessa che la propria ideologia vada sviluppata, divulgata e propagata perché essa è il miglior argomento a sostegno del proprio ruolo dirigente nazionale, mondiale, universale.

La maggior parte di coloro che si oppongono all'educazione sessuale nelle scuole si rifanno alla chiesa cattolica apostolica romana, ed al suo insegnamento; nel momento in cui si mostrano convinti che non sia possibile discutere della sessualità nel modo laico che si confà ad una scuola pubblica, e dimostrare la validità dell'insegnamento morale cattolico (se ne fossero sicuri, promuoverebbero l'educazione sessuale anziché ostacolarla), fanno perdere alla chiesa la battaglia per l'egemonia a tavolino.

Quello che in queste condizioni può avere la chiesa cattolica apostolica romana è solo dominio, ovvero una supremazia che non è basata sul libero assenso.

Più complicato è il caso dell'ebraismo ortodosso. Secondo questa pagina, già citata qui, è vietato insegnare la legge ebraica ai non ebrei di ogni genere ed alle donne ebree; la principale eccezione è data dai doveri che la legge ebraica impone anche a queste persone: se una persona deve osservare delle norme, bisogna spiegargliele.

L'ebraismo ortodosso, al contrario del cristianesimo e dell'islam, non aspira a diventare l'unica religione dell'umanità; aspira semmai ad avere un ruolo dirigente dell'umanità, ed a convincerla ad adottare le "Mitzwot Bney Noa7 = Precetti dei figli di Noé".

E le parti della legge ebraica che riguardano esclusivamente gli ebrei di sesso maschile? Non è lecito insegnarle a chi non appartiene alla categoria, perché fanno parte del rapporto privilegiato tra Israele ed il suo Dio - ma sottrarle all'insegnamento ed alla discussione pubblica le toglie dalla lotta per l'egemonia.

Gramsci amava il gioco del calcio, e perciò avrebbe apprezzato (immagino) questo paragone: la squadra non si iscrive a nessun campionato e non può perciò vincerne uno. Non è possibile verificarne le qualità atletiche.

Le "mitzwot bney Noa7" citate non si basano su quello che in altre tradizioni di pensiero viene chiamato "diritto naturale", ovvero su una riflessione razionale sulla natura ed i bisogni dell'uomo, ma sono comunque basate sulla Rivelazione - per credere che l'Eterno abbia imposto agli esseri umani in genere, nel periodo tra Adamo e Noé, questi precetti, occorre credere alla Torah rivelata a Mosé sul Sinai.

Sebbene gli ebrei incoraggino lo studio e la riflessione da parte dei non-ebrei di codeste "mitzwot", tali attività vengono fortemente limitate dal divieto di approfondirne la base ultima - la Torah.

Sempre per tornare alla situazione che ha dato origine al concetto di egemonia, nessuno si oppone invece a che un "proletario" studi le basi ideologiche dell'egemonia della "borghesia" in un regime capitalistico - qualsiasi "borghese" lo apprezzerebbe, e questo è un atteggiamento egemonico.

Non accade questo per l'"halakhah = legge religiosa ebraica". Accettare le "mitzwot bney Noa7" non vuol dire quindi riconoscere l'egemonia ebraica (questo riconoscimento è per definizione un libero assenso di un intelletto che ha potuto approfondire ciò che infine approva e vagliare tutte le alternative), ma sottomettersi al dominio ebraico.

Maimonide (rimasto in questo minoritario) esigeva che tutti i non ebrei viventi in "Eretz Yisrael = la Terra d'Israele da Dio promessa" fossero dei "bney Noa7"; questo non aveva solo valenza religiosa (le "mitzwot bney Noa7" vietano l'idolatria ed il sesso non procreativo, tra le altre cose), ma anche culturale e politica: il "ben Noa7 = figlio di Noé" dichiara la propria subalternità all'ebraismo ortodosso, pur non essendo quest'ultimo in grado di essere egemone per i motivi suesposti.

Gli intellettuali e gli scienziati ebrei hanno dato all'umanità un contributo molto superiore alla loro proporzione nella popolazione mondiale - ma è proprio perché hanno accettato il confronto (il sale della vita scientifica ed intellettuale) con i colleghi non ebrei che hanno potuto validamente lottare per l'egemonia e vincerla.

Raffaele Ladu
22 Febbraio 2014

domenica 16 marzo 2014

Eteronormatività come folklore

In Q. 1 (XVI), § <89> _Folklore_, pp. 65 bis-66 bis, Gramsci comincia una serie di acute osservazioni sul Folklore, che verranno poi rielaborate in Q. 27 (XI), pp. 1-5.

Vi riporto un paio di brani che mi paiono estremamente interessanti, prima di applicarli all'eteronormatività:

"Il folklore, mi pare, è stato finora studiato (in realtà finora è stato solo raccolto materiale grezzo) come elemento «pittoresco». Bisognerebbe studiarlo come «concezione del mondo» di determinati strati della società, che non sono toccati dalle correnti moderne di pensiero. Concezione del mondo non solo non elaborata e sistemizzata, perché il popolo per definizione non può far ciò, ma molteplice, nel senso che è una giustapposizione meccanica di parecchie concezioni del mondo, se addirittura non è un museo di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia. Anche il pensiero e la scienza moderna danno elementi al folklore, in quanto certe affermazioni scientifiche e certe opinioni, avulse dal loro complesso, cadono nel dominio popolare e sono «arrangiate» nel mosaico della tradizione (...). Il folklore può esser capito solo come riflesso delle condizioni di vita del popolo, sebbene spesso esso si prolunghi anche quando le condizioni siano modificate in combinazioni bizzarre. (p. 65 bis)"
(...) 
"Ma allora, perché insegnare il folklore nelle scuole che preparano gli insegnanti? Per accrescere la cultura disinteressata dei maestri? Lo Stato ha una sua concezione della vita e cerca di diffonderla: è un suo compito e un suo dovere. Questa diffusione non avviene su una tabula rasa; entra in concorrenza e si urta per es. col folklore e «deve» superarlo. Conoscere il folklore significa per l'insegnante conoscere quali altre concezioni lavorano alla formazione intellettuale e morale delle generazioni giovani. (...) Solo così l'insegnamento sarà più efficace e più formativo della cultura delle grandi masse popolari e sparirà il distacco tra cultura moderna e cultura popolare o folklore. (p. 66)"

Gramsci aveva già notato (Q. 1 (XVI), § <68> _La quistione sessuale e la Chiesa cattolica. Elementi dottrinari._, pp. 58-59 bis) che il diritto canonico esige per la validità del consenso che i nubendi sappiano cos'è la riproduzione sessuale, cosa che, per citare Gramsci, "dovrebbe giustificare e anzi imporre l'educazione sessuale" (p. 59); purtroppo invece "si finisce col preferire le nozioni [saltuarie e] «morbose» alle nozioni «metodiche» e educative". (p. 59)

Prima ancora aveva scritto Gramsci (Q. 1 (XVI), § <65> _Riviste tipo_, pp. 57 bis-58):

"Ogni strato sociale ha il suo «senso comune» che è in fondo la concezone della vita e la morale più diffusa. Ogni corrente filosofica lascia una (57 bis | 58) sedimentazione di «senso comune»: è questo il documento della sua effettualità storica. Il senso comune non è qualcosa di irrigidito e immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e opinioni filosofiche entrate nel costume. Il «senso comune» è il folklore della «filosofia» e sta di mezzo tra il «folklore» vero e proprio (cioè come è inteso) e la filosofia, la scienza, l'economia degli scienziati. Il «senso comune» crea il futuro folklore, cioè una fase più o meno irrigidita di un certo tempo e luogo. (...)" (p. 58)

Credo di avere abbastanza elementi per cominciare la riflessione. Innanzitutto preciso che dissento da Gramsci quando dice che è dovere dello Stato diffondere la sua concezione della vita: preferisco in questo John Rawls ad Antonio Gramsci, e penso perciò che lo Stato deve garantire la convivenza delle più diverse concezioni della vita, fornendo a tutti attraverso l'istruzione i mezzi per crearsi la propria - senza imporne una a nessuno.

La seconda cosa è quella che aveva già notato Gramsci: la sessualità è l'unico campo della vita in cui i reazionari preferiscono che la massa delle persone conosca il folklore e non la scienza. Dire che l'educazione sessuale deve essere affidata alla famiglia e non alla scuola vuol dire infatti questo.

Tanto per intenderci, nessuno direbbe mai: "Uno dei suoi genitori è avvocato, non ha bisogno della laurea in giurisprudenza per iniziare la professione", perché tutti sanno che nemmeno in un caso tanto favorevole l'educazione informale che si riceve in famiglia darebbe una formazione adeguata, di livello scientifico e non folkloristico.

Pretendere invece che la maggior parte delle persone riceva solo questo tipo di educazione in campo sessuale significa ammettere che i "valori" che si vogliono trasmettere non reggono al vaglio della scienza, e l'unico loro puntello è il "senso comune" gramscianamente definito.

L'eteronormatività si configura da questo punto come una forma di folklore, non come una dottrina organica - soltanto adesso, come reazione alle teorie queer, gli eteronormativi cercano di creare una teoria coerente, ma la loro fiducia nella possibilità di riuscirci è così scarsa che hanno voluto bocciare il "Rapporto Estrela" nel Dicembre 2013, usando come pretesto non solo le posizioni espresse sull'aborto, ma anche il fatto che il rapporto raccomandava l'educazione sessuale nelle scuole dell'infanzia.

Proviamo a metterci nei panni di uno dei pochi marxisti tuttora esistenti (non sono fra loro, ma sono stato per nove anni iscritto al PCI, e penso perciò di conoscerne la mentalità), il quale viene a sapere che Il Sole 24 Ore si è messo a pubblicare la collana Economia Classica Per Tempi Moderni, che comprende Il Capitale di Karl Marx (in edicola si può comprare un condensato dell'opera, che contiene le credenziali per scaricare l'intera opera sotto forma di e-book).

Il marxista in questione probabilmente gongolerebbe, pensando che è un tributo alla grandezza di Marx il fatto che il giornale della Confindustria lo ritenga indispensabile alla formazione culturale del buon borghese - e che Marx riuscirebbe a sopravvivere anche ad una lettura riduttiva o tendenziosa, per cui bisogna comunque plaudire all'iniziativa.

Questa fiducia nella capacità delle proprie idee di farsi apprezzare in ogni circostanza ce l'hanno i reazionari quando cercano di sabotare le ore alternative all'insegnamento della religione cattolica, e preferiscono avere una classe piena di studenti indispettiti ad una classe con pochi studenti motivati; ma questa fiducia non ce l'hanno quando si tratta di insegnare l'educazione sessuale a scuola, e protestano contro i corsi di studi di genere e di teorie queer all'università.

Non c'è egemonia gramsciana senza la fiducia nelle proprie idee e nella possibilità di convincere altri della loro universale validità. Socialmente, le persone queer sono svantaggiate (e parecchio), ma paradossalmente sono gli eteronormativi ora ad essere culturalmente subalterni, perché non sono loro a dettare i termini del discorso, e non possono evitare di tradurre quello che potrebbe dirsi il loro "sapere" (sospendiamo momentaneamente il giudizio sul merito) in un linguaggio che non è quello loro proprio per farsi capire.

A questo punto, conviene secondo me capovolgere l'atteggiamento queer nei confronti dell'"eteronormatività come folklore".

Le teorie queer mostrano che quello che appare naturale (la "matrice eterosessuale", ad esempio, che, secondo Judith Butler, impone la coerenza tra corpo, genere e desiderio) è in realtà una costruzione sociale, ma partono dal presupposto che l'eteronormatività sia una dottrina egemone (anche gramscianamente) che si può combattere soltanto parodiando i rituali che impone in modo da smascherarli.

Questo è il comportamento di chi ritiene impossibile prendere di petto l'egemonia altrui - ma, secondo me, è lo stesso comportamento degli eteronormativi, che sottraggono le loro concezioni al serio dibattito che imporrebbe la loro inclusione in un insegnamento scolastico, a mostrare la debolezza concettuale dell'eteronormatività, che si configura come una stratificazione non preordinata (gramscianamente, "folkloristica") di concezioni di disparata origine.

Un "genogramma" (non una semplice "genealogia") delle varie forme di eteronormatività potrebbe assestarle un duro colpo. Non è un'impresa facile (soprattutto perché il "senso comune" è lento ad evolversi, e quindi anche un'ottima confutazione non avrà effetto immediato), ma va a mio avviso tentata.

Raffaele Ladu,
15 Marzo 2014

lunedì 10 marzo 2014

Apocalissi queer / Lorenzo Bernini

Inauguro il blog "Gramscisessuale", il cui scopo è tentare di trasmettere ai bisessuali l'egemonia culturale che attualmente detengono, più che gli eterosessuali, gli eteronormativi, con una piccola recensione del libro Apocalissi queer. Elementi di teoria antisociale / Lorenzo Bernini.

Molte persone più competenti di me (tra cui l'autore stesso nella sua overture) hanno riassunto il libro - il cui scopo è dar conto dei filoni più inquietanti delle teorie queer (esemplificati da Leo Bersani, Guy Hocquenghem, Lee Edelmann), che rivendicano orgogliosamente come caratteristica dell'omosessualità proprio il rifiuto del futuro (rappresentato dalla posterità, alias la prole) che gli eteronormativi rinfacciano a chi pratica sesso non procreativo, ed in particolar modo a chi versa il proprio seme "in vaso improprio".

Le argomentazioni con qui questi autori sostengono le loro posizioni (ed alcune delle obiezioni che muove loro Bernini) è meglio che le leggiate nel libro; vorrei invece dare una lettura personale della principale risposta che il filosofo della politica Bernini dedica a codesti teorici, i quali hanno la sgradevole caratteristica di schiacciare le persone "queer" [non-etero e/o non-cis] tra l'oppressione dell'eteronormatività ed il nichilismo della pulsione di morte.

Bernini osserva che il soggetto politico della tradizione liberale che questi teorici prendono a bersaglio, quello che appare intriso di progettualità per il futuro, in nome del quale sacrifica il presente, nasce con il pensiero di Thomas Hobbes.

Nella lettura di Bernini, Hobbes prende sul serio uno dei capisaldi del cristianesimo: poiché il Messia Gesù è già venuto, nessuna evoluzione storica è più possibile, e tutti gli uomini vivono in un perenne presente in attesa della seconda venuta di Cristo, unico evento significativo previsto in futuro.

Mi distacco qui dall'argomentazione di Bernini per osservare che in questa situazione non si progetta un futuro: si vive una coazione a ripetere (in cui gli psicoanalisti rinvengono il segno della pulsione di morte), in cui anche la riproduzione personale, familiare e sociale non è altro che un ripetere le medesime azioni, con varie periodicità (da più volte al giorno a più volte al secolo), affidandole a diverse persone con il susseguirsi delle generazioni.

La pulsione di morte non trionfa quindi in alcuni degli stili di vita queer, come sostengono invece gli autori citati nel libro, bensì proprio nella società eteronormativa costruita intorno ai soggetti liberali hobbesiani.

La catena di montaggio fordista (ci ho lavorato in gioventù - Gramsci aveva ragione a dire che l'operaio ormai esperto può lavorare pensando ad altro, filosofeggiando perfino) è una rarità ormai, ma la parcellizzazione delle proprie vite, chiuse in ruoli sempre più ripetitivi, limitati e svalutati (non solo dal punto di vista economico), per non dire degradanti ed autodistruttivi, è sempre più pervasiva.

Tutte le considerazioni che nel libro vengono fatte sulla pulsione e sulle attività sessuali capaci di dissolvere l'io, pur validissime e confermate da molteplici autori, nonché dall'esperienza di quasi ogni persona (anche quelle che non sono "passive"), sono perciò un vedere gli alberi e non la foresta.

Secondo la mia lettura, la critica più radicale che si può fare ai teorici queer antisociali è che non è negando il valore del futuro che si demolisce la società eteronormativa: essa non ha un futuro degno del nome da offrire.

È come se questi teorici cercassero di fare uno streaking, senza rendersi conto di essere in un campo nudista! Un campo nudista in cui molti si comportano come il re della favola di Andersen (guarda caso, bisessuale con netta preferenza per i maschietti), che non vuole ammettere di essere nudo perché attribuisce la propria nudità alla propria inettitudine al ruolo (regale) anziché alla truffa che ha subìto.

Bernini cita spesso la "pop culture = cultura popolare"; io cito una vignetta di Dilbert (pubblicata il 2 Febbraio 2014 - non la riporto per non pagare i diritti d'autore): in essa lo sconsolato ingegnere software Dilbert spiega al suo capo che, per non sperperare la sua limitata forza di volontà, ha deciso di applicarla solo al lavoro e non al cibo - con il risultato che ha cominciato ad ingozzarsi, è diventato obeso, ed ha ridotto la sua speranza di vita di vent'anni.

Il suo capo (normalmente non è un mostro né di sagacia né di empatia) gli chiede se gli va bene così, e lui risponde: "Ma chi vorrebbe altri vent'anni della mia vita?"

Credo che siano in molti, etero e cis, a pensarla come Dilbert (che, bontà sua, sostiene nelle strisce che disegna di lui Scott Adams i diritti delle persone LGBTQAI) - le persone LGBTQAI dovrebbero allearsi con loro ed offrire un futuro degno del nome, non lodarne il rifiuto.

Quello che però mi ha convinto a dedicare il post inaugurale di questo blog "gramscisessuale" al libro di Bernini è questa coppia di brani (ce ne sono anche altri, ma non posso citare pure quelli senza violare i diritti d'autore), che si trovano nelle pagine 162 e 163, con cui Bernini attira l'attenzione su un aspetto spesso trascurato del pensiero di Hobbes:
Ma gran parte degli altri compiti del sovrano si esercitano non tanto con la forza quanto attraverso l'azione persuasiva, pastorale, di un potere-sapere volto a plasmare la soggettività degli individui. Tale azione richiede una preventiva conoscenza della realtà che il sovrano è chiamato a governare, e quindi la produzione di verità relative ai suoi sudditi, al territorio, alle risorse e ai rapporti economici da cui dipendono quelle che sintomaticamente Hobbes chiama alimentazione e progenie dello stato
(...) 
Al Leviatano non è infatti sufficiente che il popolo sia edotto della sua volontà che è legge: esso esige che ogni singola cellula del suo grande corpo approvi la sua volontà, che ne sia intimamente convinta, che conosca le verità che razionalmente la giustificano.
Questi brani qui mostrano la necessità di quella che, tre secoli dopo Thomas Hobbes (1588-1679), Antonio Gramsci (1891-1937) chiamerà "egemonia".

Non sembra si siano tentate letture di Hobbes alla luce di Gramsci - eppure Bernini, parlando di Hobbes, espone una condizione essenziale per ottenere l'egemonia, ben nota al Leviatano: saper amministrare (nel peggiore dei casi, quello dei demagoghi, manipolare) la paura e la speranza, i principali sentimenti che collegano il presente di una persona al suo futuro.

Credo (sono ben altro che un "gramscista", quindi non posso esserne sicuro) che l'importanza di questi sentimenti non sia mai stata formalizzata da Gramsci, ma i suoi seguaci la conoscono bene, almeno a giudicare da quello che ho scritto qui, sintetizzando il pensiero di uno di loro, Gaetano Sabattini.

Gramsci è al centro della "democrazia radicale", corrente di pensiero i cui principali esponenti sono Ernesto Laclau e Chantal Mouffe (altra informazione che devo a Lorenzo Bernini, che pertanto ringrazio), autori del libro Hegemony and Socialist Strategy (Wiki, Verso), ma penso che sarebbe molto interessante chiedersi se non sia opportuno ibridare il Principe di Machiavelli preso ad esempio da Gramsci con il Leviatano di Hobbes gramscianamente rivisitato, per ottenere un soggetto politico capace di produrre egemonia.

Raffaele Ladu,
10 Febbraio 2014